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Tu sei qui: Home Democratici Nel Mondo MEDITERRANEO La strategia dello Stato Islamico: lo scontro di civiltà

La strategia dello Stato Islamico: lo scontro di civiltà

La rivista di geopolitica Limes è da anni impegnata a capire il fenomeno dell'Isis che ha sorpreso tante diplomazie occidentali nel suo rapido affermarsi in Iraq e in Siria come Stato Islamico. Non c'è dubbio che questo sia dovuto principalmente alla destrutturazione del territorio siriano in seguito alle rivolte del 2011 che hanno messo sotto accusa il regime di Al Assad senza riuscire a rovesciarlo; così come lo scontro in Iraq tra la maggioranza sciita, oggi al potere, e la minoranza sunnita ha favorito la conquista di Mosul da parte dell'Isis. Nell'articolo che segue Limes ci avverte di un altro rischio che lo Stato islamico intende alimentare contro l'Occidente: quello di spingerci nella trappola dello scontro di civiltà così da giustificare la propria esistenza e rafforzare la capacità di attrazione e arruolamento verso le seconde e terze generazioni di musulmani nel mondo.
La strategia dello Stato Islamico: lo scontro di civiltà

Attacchi Stati Islamico nel mondo

Il nodo scorsoio offertoci dai jihadisti ha un nome: guerra al terrorismo. Di più: «guerra all’islamismo radicale» secondo il presidente della Repubblica Francese François Hollande, o addirittura al «salafismo», come specifica il suo primo ministro Manuel Valls, evocando gli epigoni del movimento riformista musulmano che nell’Ottocento predicava il «ritorno agli antenati»1. Dopo le stragi del 13 novembre, perpetrate nel cuore di Parigi da un manipolo di terroristi francesi e belgi di origine araba più o meno collegati allo Stato Islamico (Is), la Francia sembra aver vestito la divisa della guerra di religione. E con essa parte dell’Occidente, a cominciare dal vicino Belgio, base logistica dei jihadisti che hanno massacrato 130 innocenti nei caffè e nei teatri della Ville Lumière.

«Terrorismo» è termine inflazionato. Marchio con cui bollare il nemico, non categoria euristica. Eppure mai come oggi, quando l’emozione e la rabbia minacciano di prendere il sopravvento sulla ragione, è opportuno ricordare a noi stessi che il terrorismo è una tecnica di combattimento. Non una specialità islamica o di qualunque altro credo, visto che a usarla lungo l’intero corso della storia umana sono stati i soggetti più diversi, noi europei non esclusi. Per capirne il senso non serve compulsare il Corano. Meglio riprendere in mano i nostri classici. Ripartendo dalla definizione clausewitziana della guerra come «atto di forza che ha per iscopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà». Dunque a fare ciò che noi vogliamo faccia. Non occorre disporre di particolari doti decrittatorie per stabilire che il primo obiettivo di coloro che hanno colpito a Parigi, come prima a New York e a Washington, a Londra e a Madrid, è quello di spingere l’Occidente alla crociata, vero nome della guerra al terrorismo. Così legittimando se stessi nelle proprie comunità e regioni di origine – lì dove giocano le decisive partite di potere – come guerrieri di Dio, avanguardie del riscatto di un mondo umiliato, frustrato ed esposto al diabolico fascino della modernita…

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Editoriale

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