Diritti umani e politica estera a 64 anni dalla Dichiarazione universale
Purtroppo no. Innanzi tutto esiste una considerevole distanza teorica tra l' evoluzione della dottrina dei diritti umani e le dottrine " realistiche" o " ultrarealistiche" dell'ordine internazionale che sono egemoni presso tutte le Cancellerie del pianeta. Basti pensare alle scuole di pensiero che formano le diplomazie europee: non sono certo nè Kant nè Kelsen nè l'ultimo Rawls, quello del " diritto dei popoli". Sono piuttosto i grandi testi di Morgenthau sulla " Politica delle nazioni", di Kennan sulla teoria del contenimento, di Kaplan sulle relazioni internazionali come sistema, di Waltz sulla " Teoria della politica internazionale".
Anche l'opportuna rinascita della "geopolitica critica" proposta dalla scuola francese di Hèrodote, che si oppone alle logiche di potenza e ai processi di occidentalizzazione del mondo, fatica a conciliare legittime differenze culturali e religiose in ampie regioni del mondo con l'universalità dei diritti umani.
Il fatto è che l'unificazione politica del mondo è in stallo, malgrado la globalizzazione economica e finanziaria stia stravincendo. Lo vediamo dal crescente indebolimento dell'ONU, dall'incapacità degli Stati da quasi vent'anni di riformare il Consiglio di Sicurezza in senso più democratico e inclusivo.
Il fatto è che l'universalizzazione dei diritti umani rimane più una dichiarazione programmatica che un processo davvero condiviso dal ritorno sulla scena mondiale delle grandi religioni, dalle diverse forme di civiltà e dalle numerosissime minoranze che rinforzano le loro identità culturali, linguistiche ed etiche come anticorpi rispetto alla stessa globalizzazione.
L'esempio più evidente di opposizione all'universalizzazione come occidentalizzazione dei diritti viene dal mondo islamico e dal mondo arabo che, in due diverse loro Organizzazioni, hanno definito una Carta dei diritti umani ispirata alla giurisprudenza islamica.
Anche per questo pensatori come Danilo Zolo, pacifista e realista, criticano il nuovo "globalismo giuridico", che emerge all'Onu e negli stessi Stati Uniti, come pretesa egemonica, anche se illusoria, di un Occidente in declino. Oppure come giustificazione per ingerenze umanitarie che sono vere e proprie guerre, decise con il pretesto di esportare la democrazia.
Ecco un altro fattore di difficoltà per politiche estere che intendano essere coerenti con il primato dei diritti umani: la crescente disunità del mondo.
La fine del bipolarismo con la caduta del Muro di Berlino non ha lasciato il posto ad un multipolarismo democratico che tanti auspicherebbero. Piuttosto ad un multipolarismo disordinato, gerarchizzato, più competitivo ed aggressivo. Per alcuni è l'Islam che ha preso il posto dell'Urss come contrappeso alla iperpotenza statunitense. Per altri è piuttosto la Cina. Per analisti come Mearsheimer, della scuola di Chicago, l'attuale multipolarismo, con troppe potenze egemoni sul piano regionale, favorisce l'instabilità del quadro internazionale. Insomma, troppi attori con ambizioni di potenza metterebbero a rischio la pace molto più di quanto abbia fatto il bipolarismo USA-URSS.
Del resto questa è la tesi precedente di Waltz che, anzi, giustificava la deterrenza nucleare e l'equilibrio armato delle due grandi potenze come garanzia di un ordine internazionale sotto controllo.
Ma oggi sono cresciuti di numero gli Stati con armamenti nucleari e altri se ne vogliono aggiungere come l'Iran e persino il Giappone, se è vero che il rinascente nazionalismo giapponese punterebbe a rivedere l'articolo 9 della propria Costituzione per tornare a riarmarsi.
Se poi guardiamo alla crisi del processo di pace Israelo-palestinese, ci rendiamo conto che la politica dei soggetti che si contrappongono si basa più sulla logica di potenza che su quella dei diritti umani, più sulla forza delle armi che sulla forza del diritto. Al punto che l'estremismo antisionista di Hamas alimenta il militarismo israeliano e l'espansionismo dei coloni israeliani alimenta il fondamentalismo di Hamas. La via giuridico-politica scelta dall'Autorità Nazionale Palestinese di richiedere il riconoscimento all'ONU come " Stato osservatore" viene vista negativamente sia dal Governo di Tel-Aviv sia dal gruppo dirigente " interno" di Gaza. Perchè? Perchè la via del Diritto congelerebbe i disegni veri dei contendenti che sono, da una parte, un Istraele più grande se non il " Grande Israele"; dall'altra la cancellazione dello Stato israeliano dalle cartine geografiche del Medio-Oriente.
In questi disegni, i cittadini vittime di terrorismo e i cittadini vittime di ritorsioni militari e discriminazioni territoriali sono solo "pedine" da muovere e da sacrificare per interessi più alti, alla faccia dei diritti umani.
E questi interessi più alti sono quelli della ragion di Stato, altrimenti detti " interesse nazionale". Le opinioni pubbliche delle due parti in conflitto vengono sempre più contrapposte e risucchiate in una tremenda spirale di sfiducia e odio verso l'altro, definitivamente inquadrato come nemico irrecuperabile.
Il caso israelo-palestinese è paradigmatico: finchè i rapporti di forza condizionano la politica estera degli Stati della Comunità internazionale molto più dei diritti umani, non ci sarà un vero negoziato di pace e un vero Trattato di pace.
Più in generale, finchè la politica estera degli Stati considererà il terreno dei diritti umani sotto l'aspetto della riparazione e dell'aiuto umanitario e non piuttosto come fondamento di un sistema internazionale più giusto, come costruzione di società aperte, cosmopolite e disposte a cooperare tra di loro, le nostre diplomazie rimarranno dentro gli ambigui e superati criteri delle " condizionalità".
E lo Stato che si sente sotto esame, non è detto che si costringa a rispettare certi standard pur di ottenere aiuti, finanziamenti e libertà d'azione. Il problema vero è come convincere ogni Stato del mondo a diventare uno Stato di diritto, a rinunciare alla pretesa di una sovranità assoluta, magari condividendola con Organismi internazionali .
Come sostiene Antonio Cassese " oggi il fronte di battaglia si è esteso enormemente": la protezione internazionale dei diritti umani dovrebbe andare da quelli civili e politici a quelli culturali, a quelli economici e sociali. Il diritto al lavoro, all'alimentazione, all'educazione, il diritto ad un ambiente sano si aggiungono ai diritti alla sicurezza personale, alla libertà di pensiero e di religione, alla vita e al rispetto dell'integrità del proprio corpo.
Il diritto di tutti i cittadini del mondo e di tutti i popoli ai beni comuni implica, sempre secondo Antonio Cassese " notevoli mutamenti nelle attuali relazioni economiche internazionali e, in particolare, nel commercio internazionale. Nonchè un generale riorientamento delle Istituzioni internazionali deputate a promuovere lo sviluppo. "
Passi in avanti sono stati compiuti con la costituzione di Tribunali penali internazionali in grado di intervenire in caso di gravi violazioni. Molto più debole appare invece l'iniziativa politica sul fronte dei processi economici e finanziari globali, su quello delle gravi disuguaglianze sociali e delle emergenze ambientali e climatiche.
Difficile pensare che verranno riforme lungimiranti dall'alto dei Vertici o dei Summit intergovernativi, visto che ciascun Paese si trincera dietro la difesa dell'interesse nazionale.
E' tempo che l'interesse internazionale dei popoli a vivere in pace e ad una più giusta distribuzione delle risorse sia l'orizzonte etico e politico dei movimenti d'opinione e delle società civili dell'intero pianeta. Senza la loro spinta, le diplomazie degli Stati non sono in grado di mettere al centro la difesa e promozione dei diritti umani.
Marco Pezzoni
Centro studi politica internazionale